Mantova
 
Lombardia
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Resoconto di viaggio: Dettagli
Titolo:
Tipo Viaggio: Museo/sito di interesse
 
Tipologia: Di gruppo
Partenza da:  
Continente: Europa
Paese: Italia
Regione: Lombardia
Provincia: Mantova
Località: San Benedetto Po
 
Destinazione:
Continente: Europa
Paese: Italia
Regione: Lombardia
Provincia: Mantova
Località: San Benedetto Po
Durata e sistemazione:
Giorni: 1 Notti: 0 Categoria: Trattamento:
 Il viaggio comprendeva:
Guida Locale
Descrizione Resoconto:
STORIE D'ALTRI TEMPI: Museo Civico Polironiano

A San Benedetto Po, a circa 20 Km da Mantova, si trova il Complesso Monastico di San Benedetto in Polirone. In questa zona, chiamata Oltrepò Mantovano, numerosi corsi d’acqua vi depositarono i loro detriti. Il Po stesso si apriva in due ampi rami, il Po-Vecchio a sud ed il Lirone a nord, che abbracciavano l’isola di San Benedetto dove, nel 1007 venne fondato il monastero benedettino, detto appunto di Po-Lirone.

Il Complesso monastico fu fondato da Tedaldo di Canossa, prestigiosa famiglia feudataria, della quale conosciamo Matilde, che lo donò al papa,  che a sua volta lo affidò all’abate di Cluny. Nel Rinascimento il Monastero fece parte della Congregazione di Santa Giustina di Padova, acquisendo sempre più prestigio, al punto da essere considerato la Montecassino del Nord Italia.

Il territorio attorno all’abbazia apparteneva ai monaci. Non esisteva il paese. Nella campagna circostante c’erano corti rurali, di contadini che lavoravano la terra per i monaci, che venivano chiamati “terzaroli”, in quanto dovevano consegnare 1/3 del raccolto al Monastero. Il paese di San Benedetto nascerà più tardi, alla fine del 1700, con l’arrivo delle truppe di Napoleone e la soppressione del centro monastico.  

E’ una lunga premessa, doverosa, che aiuta a comprendere l’importanza che questo luogo ha rivestito nel passato. Il mio racconto però non vuole concentrarsi sulla storia del Monastero, sui capolavori e sugli artisti che vi hanno lavorato, bensì su una collezione che oggi si trova al primo piano del Chiostro di San Simeone, che forma il Museo Civico Polironiano, il Museo della cultura contadina, dei lavori e degli attrezzi ormai in disuso.

Il Museo è molto suggestivo sia per gli adulti che possono rievocare i racconti dei propri  nonni, sia per i giovani e bambini che rimangono affascinati da questo mondo rurale fatto di grande lavoro, di fatica, di onore e dignità.

Il Museo è stato inaugurato nel 1977 ed è tra i più grandi ed importanti in Lombardia. E’ diviso in sezioni a seconda delle attività: si va dal lavoro nei campi con tutte le sue fasi: aratura, erpicatura, semina, mietitura; alla pesca; alla caccia dell’anatra con la spingarda, vietata solo negli anni 70 del secolo scorso; al casaro per la produzione del parmigiano reggiano, perché, attenzione, qui ci troviamo “adlà la fiuma” cioè a sud del Po, vicino all’Emilia, dove le tradizioni e il dialetto si mescolano, confondendo i confini.  C’era il lavoro “dal ramin”, lo stagnaio;  “dal mületa”, ovvero l’arrotino che urlava di corte in corte preannunciando il suo arrivo. Questi lavoratori ambulanti erano coloro che portavano le notizie di quanto succedeva nel mondo!  E poi c’era il lavoro “dal masin” ovvero del norcino, che d’estate lavorava nelle fornaci lungo il Mincio a produrre mattoni e tegole a temperature isopportabili  e, con l’arrivo delle prime nebbie e del primo freddo,  si dedicava all’uccisione del maiale ed insaccava salumi. Come poi omettere la viticoltura, in particolar modo la Vendemmia, che ogni anno coinvolgeva in una festa vociante ed allegra tutta la famiglia, dai più grandi ai più piccoli, ed anche i vicini, che si prestavano a raccogliere i grappoli d’uva per poi pigiarli nella “navasa” = bigoncia, in cambio di una bella mangiata in compagnia. Era normale aiutarsi a vicenda, era un motivo per uscire di casa, stare assieme ad altre persone. Il mezzo di trasporto era il carro. La ricchezza della decorazione di questi carri faceva capire lo status quo della famiglia che li possedeva. C’erano poi i lavori femminili quali quelli della “rasdora” la massaia che gestiva in modo oculato l’economia della casa; della “bugandera” la lavandaia che portava i panni nelle “suiöle“ al fosso per lavarli con la cenere; della “monda” o mondina che partiva agli inizi di maggio, caricata su dei treni, assieme a tante altre donne e madri, per le risaie del Piemonte e, fino a fine giugno non vedeva la propria famiglia. Lavoro massacrante quello della mondina! Sono rimaste le loro canzoni… “Siur padrun dali beli braghi bianchi föra li palanchi, föra li palanchi ch’ andema a cà…” Una volta tornata a casa si festeggiava e magari ci si permetteva un po’ di divertimento, un divertimento povero, che però faceva sognare e scacciare i brutti pensieri. Erano le compagnie teatrali di burattinai e marionettisti che portavano lo spettacolo fatto all’aperto e un po’ di cultura, riscrivendo opere classiche sui copioni, con un linguaggio comprensibile al popolo! Ci si accorgeva del loro arrivo dai manifesti di stoffa dipinti a mano, appesi in giro per il paese. Erano spettacoli coinvolgenti. Le loro storie parlavano di cavalieri, di principesse, di tornei, di miti, di opere di Verdi, celando, in frasi di esultazione quali “Viva Verdi” Viva Vittorio Emanuele re d’Italia!, accendendo così la speranza per una futura liberazione dall’occupazione straniera.

Infine c’era il mondo dei bimbi con i loro giocattoli fatti in casa come trottole in legno, cavallini in filo di ferro, biglie di osso, bambole di pezza, o il mondo dei ragazzi fatti di  giochi di gruppo come quello della  cuccagna, o del salto nei sacchi,  o gli strumenti che si usavano per far baccano il venerdì santo, quando non potevano suonare le campane (“ciucùna”, tòla”).

Di tutto questo  mondo sono rimasti oggi gli oggetti, gli attrezzi donati e disposti con attenzione e cura nel Museo. Sono un filo sottile che ci lega ad un passato che non c’è più, o che si è evoluto. Ci sono rimaste però anche le tradizioni, le feste popolari come quella “dal nedar” che si tiene all’inizio dell’autunno, o le specialità culinarie che ancora oggi vengono preparate da mani esperte, seguendo le vecchie ricette, proprio per non dimenticare e rendere unici questi prodotti di terra lavorata con amore e sudore.



Per una visita fatta con il cuore: contattatemi Anna Ferraresi 335 5722049 [email protected]


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ANNA MARIA FERRARESI
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